SUCCINTO EXCURSUS SUL PENSIERO DELL’EX PRINCIPE DI GALLES, IN MATERIA DI ARCHITETTURA E AMBIENTE COSTRUITO
L’ascesa al trono di Re Carlo III, dopo la morte della Regina Elisabetta II, offre l’occasione per mettere a fuoco uno degli interessi che il neo monarca del Regno Unito, nel periodo in cui è stato Sua Altezza Reale il Principe di Galles, ha coltivato con speciale passione: quello per l’architettura e il disegno urbano (urban design).
Come molti sanno, l’architettura ha vissuto tra il XVIII e il XX secolo circa lo storico passaggio tra ciò che c’era prima del Modernismo (il Classicismo, i Revivals, l’Eclettismo, etc., per usare vocaboli conosciuti ai più) al Modernismo (includente il Razionalismo, il Funzionalismo, per certi aspetti anche l’Espressionismo, etc.). Il Modernismo (o Movimento Moderno che dir si voglia) s’impose come fenomeno fortemente innovatore, propugnante in vari modi un’architettura che fosse improntata all’idea del progresso. L’International Style, che si diffuse dai primi anni ‘20 del secolo scorso nel mondo occidentale, contestualmente al globalismo o mondialismo che segnò altri settori della cultura, non fu quindi scindibile dalle tante nuove “conquiste” (estetiche, tecniche, sociali, etc.) che la modernità esibì gradualmente come tangibili trofei del suo successo.
E’ dubitabile però che Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson, autori del catalogo della famosa mostra al MoMA di New York, che nel 1932 consacrò il successo dell’International Style, potessero prevedere che il Modernismo avrebbe dominato il mondo dell’architettura per vari decenni. Cosa che invece avvenne grazie non solo ai suoi geniali creatori di forme (Frank Lloyd Wright, Walter Gropius, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, etc. giusto per citare alcuni celeberrimi nomi), ma anche ai tanti esegeti che ne sancirono la stabile fortuna critica (Nikolaus Pevsner, Siegfried Giedion, Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, etc.).
Senza volere banalizzare, va detto in generale che il Modernismo prevalse soprattutto nei regimi democratici o considerabili tali. Nei regimi autoritari o dittatoriali, mutatis mutandis, il Modernismo finì invece per coesistere o soccombere alle tendenze reazionarie o passatiste, che finirono per imporsi.
Ovviamente vi sono delle eccezioni in quanto riferisco molto succintamente. Comunque sia, nel dopoguerra, il Modernismo continuò a mietere grandi successi, arricchendosi di nuovi apporti estetici. Tra i quali il Brutalismo (particolarmente amato per la “sincerità costruttiva” del calcestruzzo a vista) e lo Strutturalismo (ponente l’accento sull’insieme delle parti piuttosto che sulle singole parti), che però si diffusero nel mentre covavano e trasparivano i segni della sfiducia nella modernità, che sarebbero sfociati nella sua aperta messa in crisi.
La crisi del Modernismo
E’ noto il significato storico che assunse l’abbattimento, nel 1972-74, del quartiere di edilizia residenziale pubblica di Pruitt-Igoe (Saint Louis, Missouri), di schietta impronta razionalista e funzionalista. Un evento considerato tombale per l’architettura moderna, che nel perdere prestigio divenne vieppiù oggetto di critiche, oscillanti tra la tenuità delle esigenze di revisione e la radicalità del suo rigetto totale.
Tra l’altro, furono messi in discussione precetti ritenuti fino ad allora quasi sacri per l’ideologia modernista: l’assunto che la forma dovesse sempre (o quasi) seguire la funzione (come sostenne Louis Sullivan); la prassi che la tecnica dovesse avvalersi di materiali innovativi (calcestruzzo armato, ferro, vetro, plastica, etc.); l’attitudine a segnare netti distacchi rispetto alla continuità storica; etc.
Tutto ciò confluì gradualmente nel vasto alveo del Post-Modernismo, che designò in generale le tante e varie esperienze culturali accomunate dalla presa d’atto della crisi delle idee discendenti dall’Illuminismo, che avevano alimentato la fede nel progresso a oltranza, senza possibilità di inversioni o digressioni.
In architettura i dibattiti furono estenuanti. Ma alcuni critici guardinghi (tra cui Charles Jenks) non trascurarono di porre attenzione a ciò che stava scuotendo le basi anche teoriche dell’arte di costruire, creando valori estetici molto diversi da quelli che avevano prevalso sino ad allora.
Pur da diverse posizioni, Robert Venturi e Aldo Rossi furono dagli anni ’60 due architetti pensatori che contribuirono molto a mutare i paradigmi di riferimento. Rivalorizzando tra l’altro la storia e il passato, il valore comunicativo delle forme, il repertorio “classico”, i concetti di analogia, il senso ludico che dall’architettura può promanare, etc. Sminuendo in sostanza il primato culturale del Modernismo, che appariva isterilito avendo per molti pensatori ridotto l’architettura, nel corso dei decenni, alla mera (per quanto a volte mirabile) formalizzazione di stereometrie astratte.
Altri protagonisti furono i fratelli Rob e Léon Krier, originari del Lussemburgo, ai quali va ascritto il merito di aver focalizzato l’impegno sull’idea di ridisegno globale degli ambienti urbani, anche mediante il recupero di paradigmi storici. Rob Krier fu autore di un libro intitolato Stadtraum in Theorie und Praxis (1975), tradotto in varie lingue tra cui in inglese col titolo di Urban Space (1979), che non esagero attribuendogli importanza enorme per la rivalorizzazione della forma urbis, sbaragliata dai successi dell’edificazione libera e dallo sbiadimento dei concetti chiave illustrati nel noto saggio Der Städtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen (L’arte di costruire le città, Vienna 1889) di Camillo Sitte.
Nel Regno Unito, una personalità altrettanto serafica nel preferire alla modernità i valori eterni della “classicità” fu (e continua ad esserlo) Quinlan Terry. Le sue architetture, se osservate senza molta attenzione, sono davvero sorprendenti giacché posseggono l’insolito aspetto di apparire anacronistiche, databili non certamente al Novecento ma a tempi decisamente anteriori. Retrospettivamente, è quasi incredibile constatare come nel Regno Unito dei decenni a cavallo tra XX° e XXI° secolo siano riuscite a coesistere due correnti ultra antitetiche: quella dell’High Tech, capeggiata da Richard Rogers e Norman Foster, e quella del Neo-Tradizionalismo (o del tradizionalismo a oltranza) di Quinlan Terry e affini.
La comparsa sulla scena del Principe Charles
E’ in questo frangente che appare sulla scena il Principe Charles, erede al trono del Regno Unito, il quale intorno all’età di poco meno di 40 anni inizia ad esporre pubblicamente le sue idee sull’architettura. In una ben nota conferenza tenuta il 30 maggio 1984 per il 150° anniversario del celebre RIBA (Royal Institute of British Architects), Charles non cela il disagio che prova osservando la realtà costruttiva del suo tempo. Dominata dal Modernismo che gli appare il maggiore responsabile di molte offese arrecate alle città storiche. Forse non volendolo, egli entra con ciò in pieno nel fervente dibattito architettonico del tempo. Non senza far pesare i suoi gusti in alcune cruciali decisioni in fieri, tra cui la scelta a favore del progetto di Bob Venturi per l’ampliamento della National Gallery di Londra, a detrimento della proposta degli ABK che videro troncate le loro prospettive di carriera.
Charles diviene tuttavia il bersaglio di non poche critiche, provenienti da ambienti vari dell’establishment architettonico, che gli rimproverano di parlare a sproposito, senza molte cognizioni, non attenendosi al dovere di mostrarsi super partes, in quanto Principe di Galles, anche nella resa pubblica di opinioni personali non certamente giuste per il solo fatto di provenire dalla testa di un futuro Re. Alquanto grintoso nelle critiche è il quotidiano di orientamento progressista “The Guardian”, storicamente molto attento alle tematiche architettoniche e alla perorazione della causa modernista. I suoi columnists condannano senza attenuanti le esternazioni di Carlo, giacché ritenute vere e proprie ingerenze, stravaganti se non addirittura “sciocche”, da parte dell’erede al trono.
Intorno alla metà degli anni ‘80 frequentavo la Facoltà di Architettura di Firenze e ricordo che anche in Italia, sia nelle aule sia nelle riviste, si discuteva parecchio delle esternazioni di Charles. Soprattutto gli accaniti difensori dell’autonomia disciplinare e del Modernismo, e coloro che comunque non simpatizzavano per le monarchie elitarie, erano concordi nel considerare il Principe di Galles un dilettante, palesemente retrivo, che si intrometteva senza averne i titoli in argomenti da lui ignorati.
L’eco delle posizioni assunte da Charles si propagò quindi ben al di là dei confini del mondo anglosassone, già di per sé non poco esteso. Col risultato che le idee del futuro sovrano, per quanto spesso bollate spregiativamente come neo conservatrici o reazionarie, riscossero non trascurabili consensi nell’opinione pubblica britannica e di altre parti del mondo.
Anche la BBC concorse a favorire la conoscenza delle opinioni di Charles, con un documentario del 1988 che additava allo sdegno alcune realtà urbane di Londra e Manchester. Ad esso fece seguito l’uscita del libro A Vision of Britain \ A personal view of architecture (Doubleday, London 1989), nel quale il Principe prospettava gli aspetti salienti del suo diverso modo di intendere l’architettura e l’urbanistica, discipline poste dunque al centro dei suoi interessi.
Un decalogo per migliorare l’ambiente costruito
In un lungo articolo del dicembre 2014, pubblicato nel sito web di “The Architectural Review”, il Principe si spinse addirittura a enunciare 10 principi, ritenuti fondamentali per progettare al meglio gli edifici e gli ambienti urbani. Devo confessare che leggendo l’articolo ho provato imbarazzo per i richiami (ingenui e alquanto vaghi) alla natura e alla geometria, purtroppo preludenti al successivo uso altrettanto smodato di vuote parole cliché (“olistico”, “sostenibile”, etc.). Ho apprezzato però molte idee espresse da Carlo nel saggio, con chiarezza e quasi apoditticità.
I 10 principi, enumerati ordinatamente come un vero decalogo, sono lapidari nel condannare: la rigidità dello zooning (che nei paesi anglosassoni è storicamente intrinseco alla pianificazione); l’inseguimento delle mode (che per definizione sono fugaci); la ricerca a tutti i costi dell’iconicità architettonica; etc. Al contrario, essi promuovono altri valori, riesumati da un passato sepolto, come il recupero dell’ornamento, purché non sia pacchiano. Dall’insieme dei principi enunciati da Charles, non posso fare a meno di apprezzare in special modo l’attenzione dedicata ai rapporti di scala equilibrati e al senso di civicità che dovrebbe di regola permeare le costruzioni (“troppe nostre città – scrive il Principe – sono state devastate da edifici sovradimensionati, […], collocati casualmente, che non hanno alcun significato civico”).
Il principio a cui va altresì il mio plauso speciale è quello che assegna molta importanza alla pedonalità delle strade urbane, non potendosi consentire il rischio costante di essere investiti da veicoli. Carlo afferma che “il pedone deve essere al centro del processo di progettazione”, e in ciò ritengo che avesse pienamente ragione, pur limitandosi a esprimere una semplice idea di buon senso.
Spero quindi che mi si perdoni la digressione se dichiaro il mio sconforto nel constatare come ancora oggi, in Italia, in pochi danno prova di sapere quanto la saggia modalità d’uso delle strade cittadine possa giovare alla riduzione dell’inquinamento, al risparmio energetico, alla “transizione ecologica” di cui si parla inconcretamente. Taluni amministratori, predicando bene e razzolando molto male, preferiscono purtroppo costruire onerose e invadenti opere di mobilità pubblica (ad esempio tranvie), che tolgono spazi vitali ai pedoni, sfregiano le città e fanno ancora più aumentare l’inquinamento che a parole si vorrebbe abbassare. Incuranti delle certezze di Carlo, secondo il quale il miglioramento della qualità urbana si favorisce in primis con la pedonalità (di strade e piazze), da rendere agevole e sicura.
Col suo regale aplomb e la sua olimpica visione del mondo, il Principe Charles è riuscito quindi a porsi tra i più illustri fautori del ripensamento globale dei modi di costruire. Dimostrando una tenacia di convinzioni che, pur avversata o derisa da molti, è riuscita a emergere tra le tante voci tese a svalorizzare l’equazione modernismo = progressismo.
Ciò anche grazie alla riuscita di varie iniziative, tra cui la fondazione nel 1986 di un istituto di architettura e nel 2005 di una scuola di arti tradizionali, confluiti entrambi nel 2018, insieme ad altri enti di beneficenza, nella The Prince’s Foundation ispirata agli ideali di Charles.
Ai quali vorrei ancora render merito per l’importanza data a un’altra regola di semplice buon senso che a mio parere, se bene applicata, dovrebbe ritenersi quasi aurea. Essa consiste nel dare priorità, ovunque sia possibile, al restauro degli edifici storici, prima dell’eventuale costruzione di nuovi edifici i quali dovrebbero però sempre integrarsi nei contesti.
Vorrei inoltre citare, en passant, le doti di Charles come critico caustico e arguto, che ebbe il flemmatico ardimento di giudicare il famoso National Theatre (1967-76), di Denys Lasdun, “un modo intelligente di costruire una centrale nucleare nel centro di Londra, senza obiezione di alcuno”.
Poundbury
L’opera che comunque ambisce a tradurre più di altre in concreto le idee di Charles, in materia di qualità dell’ambiente costruito, è la creazione di Poundbury, un’espansione urbana a est della città di Dorchester (contea del Dorset), su terreni di proprietà dello stesso Principe in quanto Duca di Cornovaglia. Progettata da Léon Krier verso la fine degli anni ’80 e iniziata a costruire intorno al 1993, la cittadina costituisce una tangibile alternativa agli approcci convenzionali dell’urbanistica tardo moderna, ed è perciò diventata un’esperienza alquanto nota a livello internazionale.
Non voglio però addentrarmi in giudizi critici che comunque non è facile esprimere. Una valutazione basata sugli aspetti percepibili indurrebbe a considerare Poundbury non troppo diversa dalla cittadina di Seaside (1978-85) in Florida, progettata da Andrés Duany e sua moglie Elizabeth Plater-Zyberk per il facoltoso costruttore Robert Davies. La quale è diventata famosa per essere stata scelta come location del film The Truman Show (protagonista Jim Carrey), incentrato sullo strapotere della pubblicità commerciale. In essa (Seaside) tutto è studiato per apparire grazioso, piacevole, garbato, come richiesto dai facoltosi amanti delle atmosfere “old style”, ai quali si indirizzano le operazioni immobiliari ispirate ai precetti del New Urbanism. Una tendenza progettuale nei cui confronti non sono peraltro mancate le accuse di gentrificazione dei luoghi, consistente nell’aumentarne l’attrattiva per i soli ceti benestanti.
Altre analogie potremmo evincerle tra Poundbury e molti attuali villaggi commerciali, nei quali l’uso dell’edilizia tradizionale o addirittura vernacolare è funzionale alla creazione di ambienti, pur palesemente artefatti, che siano comunque gradevoli da fruirsi. Invogliando con ciò agli acquisti anche per la scelta, ancora una volta primaria, di collocare i parcheggi e la viabilità veicolare all’esterno, riservando i percorsi interni all’esclusivo uso dei pedoni.
Poundbury però non è un grande outlet, anche se qualcuno potrebbe cogliervi assonanze visive, né una location per spots pubblicitari o per residenze di soli anziani benestanti, desiderosi di quiete atmosfere. Il che lascia intendere che non sia stata perseguita la sola parvenza, ovvero l’immagine della città, a scapito della concretezza. Ciò che ha prevalso è stata comunque la creazione di un insediamento “a misura d’uomo”, che si pone nell’alveo della continuità storica, del rapporto non prevaricante dell’architettura sulla natura, dell’estetica basata sul garbo e sulla coralità delle differenze pur nella coerenza d’insieme.
Qualcosa di analogo, fatte le debite distinzioni, si è cercato di fare nel quartiere fiorentino di Novoli, progettato anch’esso da Léon Krier e realizzato all’incirca negli stessi anni di Poundbury. Sebbene sia sorto sulle ceneri del pregevole stabilimento FIAT, purtroppo raso al suolo senza riguardo, il quartiere è da citare in quanto opera che ben evidenzia come anche in una città come Firenze, dove storia e modernità coesistono da secoli, non sia mancato l’invaghimento per il recupero di forme urbane del passato (la strada, la piazza, l’isolato, gli edifici non molto alti, etc.), per lungo tempo tenute in naftalina. E’ però un peccato che per alcune vistose disattenzioni, e per le modifiche apportate al piano di Krier, gli esiti finali non abbiano raggiunto la qualità degli obiettivi perseguiti, se non nella generale aura vagamente anacronistica che ivi si respira.
Per concludere, non credo sia stato giusto contestare il diritto dell’allora Principe Charles di manifestare le sue idee, che non bollerei come retrive (o strambe) ma tuttalpiù nostalgiche. Di un mondo “pittoresco” o “classico-romantico”, storicamente intrinseco alla cultura britannica, che fu spazzato via dalla modernità, talvolta proterva e sguaiata, non sempre portatrice di apporti positivi per le città e la tutela dei patrimoni storici.
Personalmente amo tantissimo l’architettura moderna, ma non per questo pretendo che tutti debbano amarla o che si debba impedire per sempre che la tradizione permanga nella contemporaneità. Ad ogni modo, al pari di altre discipline, l’architettura non dovrebbe subire il dominio di sedicenti autorità censorie (professionali, accademiche, corporative, etc.) che stabiliscono chi possa pronunciarsi e su quali argomenti.
Rileggendo ciò che ho scritto mi accorgo di aver forse esagerato nello spezzare varie lance in difesa di Charles, senza peraltro alcun intento apologetico.
Malgrado l’opinabilità delle sue idee dilettantesche (nel senso di riferibili al diletto ovvero al piacere), non penso comunque che vada negato all’attuale Re Carlo III, come sovrano seppure più di forma che di sostanza, quanto meno il merito di aver suscitato nuove e feconde attenzioni sull’enorme valore civico ascrivibile alla qualità dell’ambiente costruito. Di cui solo pochi hanno coscienza.
Si dubita quindi che in tanti esulterebbero se Sua Maestà mantenesse la promessa, fatta alcuni anni fa, di non parlare più di architettura e urbanistica qualora fosse diventato Re.
EMas (Emanuele Masiello) – Settembre 2022
Per saperne di più:
– HRH The Prince of Wales, A Vision of Britain: A Personal View of Architecture, Doubleday, London 1989
– Prince Charles and the Architectural Debate, by Christopher and Charles Knevitt, (Architectural Design Profile) 1989