UN’ECCELSA ARCHITETTURA MODERNA RESTAURATA E RIACQUISITA ALLA MIRABILITÀ URBANA
Non ho mai condiviso il pensiero di chi crede che Firenze sia stata una città passatista. Tendo più a concordare con chi sostiene che la città sia stata, al contrario, spesso innovatrice – in Toscana, in Italia o nel mondo –, promuovendo o comunque accogliendo, in architettura e in arte, innovazioni anche molto radicali e dirompenti. Non solo durante il Rinascimento, come è arcinoto, ma anche in altri periodi aurei della storia cittadina.
Ho fatto questa premessa per introdurre il Palazzo ex Olivetti (1968-71), situato ai numeri 32-34 di Via Santa Caterina D’Alessandria (la città egiziana non quella italiana), nei pressi ove la strada dirama diagonalmente da Viale Spartaco Lavagnini. Quando fu costruito, l’edificio costituì una clamorosa novità nel panorama cittadino, specie agli occhi di architetti e ingegneri, seppure il modernismo, nelle sue varie forme incluse quelle ricorrenti all’analogia con la storia e i contesti, non aveva certo mancato di arricchire in precedenza il sontuoso patrimonio architettonico urbano di Firenze.
E’ alquanto noto che la Olivetti, fondata a Ivrea (nel Canavese) dove mantenne la sede principale, assegnò primaria importanza alla cultura progettuale e costruttiva, sia come mezzo di promozione dell’immagine aziendale sia come risorsa per creare ambienti di vita e di lavoro che avessero altissimi standards tecnico-estetici.
Lo attestano i tanti studi che sono stati compiuti e lo conferma, negli ultimi tempi, il sito web dell‘Associazione Archivio Storico Olivetti, un fonte basilare che non trascura di dedicare ampio spazio alla menzione delle attività che segnarono l’imporsi dell’azienda, durante il Novecento, nel panorama progettuale nazionale e internazionale.
Adriano Olivetti (1901-60), che fu a capo della Società negli anni di impetuosa crescita del dopoguerra, fu talmente intriso di tematiche architettoniche e urbanistiche da divenire un riferimento svettante per molti settori ed esponenti della cultura progettuale del suo tempo, che da lui beneficiarono d’avalli e sostegni. Anche negli anni seguenti, quando l’azienda s’espanse fino a raggiungere i vertici mondiali nella produzione di oggetti tecnologici di avanguardia (calcolatrici, macchine da scrivere, computers, arredi per uffici, etc.), l’attenzione dedicata dalla Olivetti all’architettura non calò, ma s’arricchì anzi di apporti che in retrospettiva paiono davvero sbalorditivi.
Basti dire che le sedi della Olivetti (fabbriche, filiali, laboratori, etc.) costruite al tempo in vari luoghi del mondo si distinsero quali opere di eccelso livello qualitativo, progettate quasi sempre da affermati o comunque talentuosi maestri dell’architettura e dell’ingegneria. Si pensi ad esempio: allo Stabilimento Olivetti di Harrisburg (1966-) nel Connecticut (USA), affidato all’ingegno di Louis Kahn; al Centro tecnico e Magazzino Olivetti a Yokoama (-1970c) in Giappone, opera di Kenzo Tange; alla sede della Deutsche Olivetti (1968-1972) a Francoforte in Germania, dovuta ad Egon Eiermann; al Training Center (1969-72) della British Olivetti ad Haslemere nel Surrey (UK), progettato da James Stirling.
Tutte esperienze, quelle sopra citate, che attestano la grande importanza storica avuta dalla Olivetti, durante un periodo di tempo non lungo, nel favorire la promozione della cultura costruttiva di qualità nel mondo, oltre che in Italia. Tale evidenza non sfuggì al periodico statunitense “Progressive Architecture” (“Architettura Progressista”) che dedicò un ampio tributo critico alla corporation italiana nel fascicolo dell’agosto del 1983 (vedasi la bibliografia in calce).
Si colloca in tale contesto la decisione assunta verso la fine degli anni ’60 dai vertici aziendali – tra cui il fratello minore di Adriano, Dino Olivetti (1912-76) e il figlio primogenito di Adriano, Roberto Olivetti (1928-85) – di costruire anche in Firenze una sede che fosse degna della volontà d’eccellenza che aveva caratterizzato l’identità storica dell’azienda.
A tal fine, fu affidato l’incarico progettuale all’architetto Alberto Galardi (1930-), ligure di nascita, che già lavorava in Olivetti in quanto era stato scelto da Adriano nel 1959 come artefice del Laboratorio Farmaceutico e Istituto di Ricerche Antoine Marxer (1959-62), poco fuori di Ivrea. Oltre a ciò, Galardi aveva collaborato con Carlo Mollino nella realizzazione del Palazzo degli Affari di Torino, e aveva svolto varie attività didattiche presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, nel turbolento periodo permeato da richiami alla Rivoluzione Culturale di Mao in Cina (sic !).
Inoltre, egli era stato autore del libro Architettura italiana contemporanea, edito nel 1967 dalle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano Olivetti nel 1946 che fece parte, insieme al periodico “Comunità” fondato nello stesso anno, delle tante esperienze editoriali che animarono il Movimento di Comunità, con cui empatizzarono molti esponenti della cultura italiana del tempo.
Per restare all’arte del costruire e alle discipline collaterali, basti dire che le Edizioni di Comunità pubblicarono le riviste “Metron” e “Zodiac“, e che per un certo periodo gestirono l’uscita di “Urbanistica” (diretta per molti anni da Adriano Olivetti), che fu organo ufficiale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU). Quando mai s’era visto in Italia un tale coinvolgimento fattivo e incisivo, da parte di un forte potere industriale, nel mondo che si occupava di cultura delle città, della pianificazione, dell’architettura, del design, etc., ovvero di argomenti basici per le prospettive di un Paese civile ?
Insieme a Galardi, un ruolo non meno importante nell’attuazione dell’ambiziosa impresa costruttiva fiorentina l’ebbe il più “anziano” ingegnere Silvano Zorzi (1921-94). D’origini venete, egli aveva studiato all’Università di Padova e al Politecnico di Losanna, in Svizzera, acquisendo notevoli abilità in materia di strutture cementizie, quali quelle in cui spiccava l’attività della Società IN.CO. (Ingegneri Consulenti), da lui fondata e specializzata in opere civili e industriali.
L’ingegnere Augusto Bianco fu il terzo principale componente del sinergico team preposto alla creazione dell’edificio, in un’area urbana di Firenze vicina ai viali di circonvallazione (aperti dopo l’abbattimenti delle mura), ove per lungo tempo vi fu l’Asilo Mortuario di Santa Caterina, con annessa cappella poi Oratorio di San Giuseppe.
La soluzione scaturita dal lavoro dei progettisti s’esplicitò in uno schema statico-costruttivo molto chiaro e razionale, i cui pregi maggiori consistevano nella schietta modernità dei valori morfologici, strettamente connessi ai congegni atti a conferire la giusta firmitas all’edificio. Leggendo le descrizioni degli autori e osservando attentamente i disegni tecnici (specie le sezioni), come quelli acclusi alle varie pubblicazioni a stampa dedicate all’edificio (vedasi la bibliografia in calce), si capisce che la soluzione ideata fu davvero geniale, e quindi ampiamente meritevole della fortuna critica che l’opera riscosse.
Nella sostanza, l’edificio è costituito da due parti connesse. La prima riguarda tutto ciò che c’è nel sottosuolo, inclusi i garages su tre piani, e costituisce una sorta di basamento struttivo di cemento armato “tradizionale”. La seconda, in elevato, consiste in una ingegnosa soluzione che si fonda sul largo uso del cemento armato precompresso. Essa consiste in due strutture portanti simili a torri o piloni, poste sui lati brevi e contenenti scale e ascensori, su cui è posata una grande copertura di tipo scatolare alta quasi due metri. La quale è costituita da travi longitudinali primarie (parallele alla strada) e travi trasversali secondarie, alle cui estremità di queste ultime, in notevole aggetto rispetto alle torri laterali, sono fissati i tiranti verticali (o pendini) che reggono dall’alto i sottostanti impalcati dei volumi agibili, racchiusi entro pareti vetrate, i quali risultano pertanto non sostenuti ma appesi.
Una soluzione che appare straordinariamente moderna ed audace, quantunque sia basata sull’arcinoto e antichissimo principio statico del trilite.
La copertura la ritengo concettualmente analoga a quella della Neue Nationalgalerie in Berlino (1962-68) di Mies van der Rohe, con la differenza che a Firenze si preferì usare non l’acciaio ma il cemento armato precompresso. Sulle sue fasce esterne, che richiamano l’idea dell’attico inteso come coronamento dell’edificio, sono ben visibili i capichiave delle armature di precompressione, ai quali fu data la studiata forma di dadi, con ciò evocando il pregio di operazioni quali quelle compiute da Otto Wagner a Vienna, tese a conferire valore ornamentale ai manufatti tecnici.
Gli artefatti che però prevalgono, nel fissare l’iconicità visibile all’edificio, sono i citati tiranti verticali (o pendini) che scandiscono le intere lunghe facciate su Via Santa Caterina d’Alessandria e sul retro, assumendo il valore di precipue chiavi figurative dell’opera. In guisa di esoscheletri complementari, i pendini reggono i solai dei vari piani, fungendo al contempo da filtri frangisole per le retrostanti pareti vetrate, arretrate di circa un metro rispetto al filo esterno dell’edificio. Tali solai, altrimenti definibili come impalcati, non sono pertanto sostenuti ma bensì appesi, sfidando le regole e le prassi costruttive tradizionali, sino all’epoca quasi ovunque invalse in Firenze e dintorni.
Anche i pendini sono di calcestruzzo armato precompresso, per resistere come necessario alla trazione, ma sono però prefabbricati, avendo dovuto precisamente eseguiti onde potervi posare, su apposite sporgenze, i moduli degli impalcati dei vari piani, pure prefabbricati, di cui sono visibili i dadi di chiusura dei tiranti orizzontali, analogamente a quelli dei tiranti verticali.
Si coglie quindi la chiara intenzione, da parte dei progettisti, di rendere eloquenti i congegni costruttivi, anche agli occhi dei meno esperti, onde esplicitare il funzionamento tecnico dell’edificio, concepito quasi come un macchinario composto dall’assemblaggio di varie parti, analogamente ai prodotti della Olivetti divenuta famosa per l’impeccabile qualità del design. Osservando attentamente le facciate, si vede peraltro alquanto bene che i pendini più corti e arretrati reggono i due impalcati più alti, mentre i pendini più lunghi e più avanzati reggono o due impalcati più bassi.
Il tutto appare improntato alla rigorosa esattezza della tecnologia insita nel calcestruzzo precompresso in opera e più ancora nel calcestruzzo precompresso prefabbricato. La volontà di coerenza che permea l’intero edificio, nella rispondenza tra le varie parti, si riscontra persino nei serramenti scuri delle pareti vetrate che riflettono, nel disegno delle luci, la scansione dei pendini.
In effetti, la dialettica tra iterazione a cadenza regolare dei pendini chiari (aventi inerti di marmo di Zandobbio nell’impasto) e trasparenza delle retrostanti vetrate scure è una delle qualità più evidenti dell’edificio, che può essere riassunto come una scatola di vetro trasparente racchiusa entro pregevoli schermi protettivi. Ciò lo so evince anche dalla pianta rettangolare, la cui forma squadrata appare un altro basilare aspetto dell’essenzialità morfologica, rigorosa e quasi ascetica, che identifica l’edificio nella sua integrità.
Anche all’interno, la percezione di tali aspetti si coglie chiaramente, per effetto della luce naturale che inonda gli spazi, rendendo speciale l’esperienza della comunicazione visiva con l’esterno, non soggetta a chiusure murarie. La mancanza di sostegni intermedi, resi non necessari per la soluzione statica adottata, fa sì che gli spazi interni siano utilizzabili in totale libertà, mediante solo semplici basse pareti mobili, in ossequio alla tendenza all’epoca molto seguita di privilegiare gli open spaces, ritenuti ottimali per la produttività e la funzionalità degli ambienti di lavoro.
Essendo i piani dell’edificio appesi alla copertura, fu quindi possibile lasciar il piano terra totalmente privo di elementi portanti, la qual cosa consente alle visioni dalla strada pubblica di restare attratte dall’eccezionale trasparenza dello spazio interno, oltre il quale si intravede il retrostante spazio del resede, quale parte integrante dell’opera. Concepito come una sorta di piazza o corte interna, il resede ha valore notevole in quanto consente di ammirare con maggiore agio (non essendovi il traffico veicolare) le fattezze tecnico-estetiche dell’edificio, che sono tali da rendere evidente il perché abbia costituito una dirompente novità nel panorama costruttivo della Firenze a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento. Dove l’eccellenza del design che identificava la Olivetti era pienamente ammirabile nei tanti e vari prodotti esposti nello showroom della filiale, nei cui ambienti campeggiavano tra l’altro gli arredi per ufficio disegnati da Ettore Sottsass jr e altri noti autori.
Non ritengo implausibile cogliere nell’insieme dell’opera un latente omaggio alla poetica a cui pervenne Mies van del Rohe negli anni del secondo dopoguerra, basata sull’esattezza tecnica, sulla trasparenza delle superfici di chiusura degli spazi, sull’essenzialità del design, etc. In merito alla dialettica tra strutture portanti primarie e volumi leggeri si potrebbe parlare molto a lungo. Mi limito pertanto a richiamare un’esperienza che considero eccelsa, ossia quella del Museo di San Paolo in Brasile (1957-68), progettato dalla geniale architetta di origini italiane Lina Bo Bardi (1914-92).
Anche sul valore assunto dagli esoscheletri cementizi in architettura moderna potremmo discettare a lungo, non potendo però fare a meno di citare le eccellenze tecnico-formali raggiunte da Oscar Niemeyer in vari suoi edifici specie in Brasilia. Quanto alla prefabbricazione, che aprì storicamente tante nuove possibilità alla connotazione moderna delle facciate, non sono ignorabili gli esiti conseguiti da Pier Luigi Spadolini, anche in Firenze, come nella sede del giornale La Nazione (1961-66) e nel Palazzo degli Affari (1965-75).
Volendo riassumere, possiamo dire che un pregio primario del Palazzo ex Olivetti in Firenze consiste nella schietta ma accurata e rigorosa messa in evidenza del congegno costruttivo che regge l’edificio e delle soluzioni formali che a tale congegno sono connesse in modo logico e coerente.
In altre parole, si coglie nell’opera una sorta di perfetta coincidenza tra tecnica ed estetica, i cui meriti maggiori vanno ascritti ovviamente alla committenza e agli artefici (Galardi, Zorzi, Bianco), i quali crearono una mirabile sintesi di ingegneria e architettura. Che all’epoca destò notevole clamore, specie tra i professionisti e tra i cultori dell’arte di costruire, quantunque potesse apparire estranea al genius loci, solo però inizialmente giacché non tardò a divenire un episodio di spicco del patrimonio culturale fiorentino moderno.
Vi sarebbe ancora da soffermarsi a lungo sui tanti pregi dell’opera. Vorrei però solo elogiare, altresì, l’inserimento ambientale, che si fonda sul contrasto (cromatico, materico, stilistico, etc.) che l’edificio instaura col contesto. La qual cosa conferma, come sostengo da tempo, che non la sola mimesi ma anche l’assonanza per differenze o per analogie può condurre a esiti di compatibilità per niente sgradevoli. Del resto, penso che l’edificio possa essere visto come un palazzo vero e proprio, collocabile nell’alveo della continuità storica dei palazzi fiorentini, molti dei quali permeati dall’estetica albertiana secondo la quale la perfezione si condensa nel non poter né togliere né aggiungere alcuna parte senza sciupare il tutto.
Un aspetto su cui vorrei aggiungere qualche ultima parola è quello che riguarda il “parcheggio meccanizzato” su tre piani, collocato nel resede sul retro, alla quota del basamento interrato. Ad esso si accede mediante due rampe che diramano da Via Santa Caterina d’Alessandria e conducono all’imbocco di una piattaforma azionata meccanicamente. La quale fu anch’essa altamente innovativa giacché provvedeva a parcheggiare ogni singola vettura, senza il conducente, nel suo preciso posto numerato, con ciò riducendo la necessità degli spazi di manovra. Avevo letto più volte di tali garages, ma confesso che solo quando li ho visti di persona ho capito come concretamente siano fatti e come abbiano realmente funzionato.
Altresì vorrei menzionare, come ingegnoso artefatto, l’inferriata di sicurezza che fuoriesce dal suolo di notte e scompare alla vista di giorno, non inficiando in tal modo la continuità di percorrenza e di fruizione tra la sede di pertinenza dell’edificio lungo la strada, di proprietà privata ma di uso pubblico, e l’adiacente sede del marciapiede di proprietà pubblica.
Non mi dilungo oltre perché lo scopo di questo post non è quello di dedicare all’opera un lungo focus esegetico o un minuzioso studio storico-critico, ma è solo quello di rendere nota la recente conclusione dei lavori che ha consentito all’edificio di riacquisire la sua piena funzionalità e di tornare a sfavillare nel panorama fiorentino.
Dopo la crisi in cui cadde la Olivetti e l’acquisizione del palazzo da parte del Centro Leasing, le prospettive parvero volgere infatti al peggio. Va però detto che la fisionomia dell’opera venne preservata, pure in mancanza di specifiche tutele culturali ma in vigenza di sole tutele paesaggistiche (D.M. 25/05/1955 riferito ai viali di circonvallazione). Ciò non impedì tuttavia che l’edificio patisse la carenza di interventi manutentivi globali e coordinati, cadendo gradualmente in condizioni di obsolescenza.
La svolta preludente al recupero si ebbe col passaggio della proprietà alla Fideuram, società del gruppo Banca Intesa, la quale scelse l’edificio per alloggiarvi la sua prestigiosa sede fiorentina. Non prima però di aver attuato gli onerosi lavori, di recente ultimati e che oggi salutiamo con favore, che hanno condotto all’avvio di una nuova stagione di vita per l’eccellente ex filiale fiorentina della Olivetti, tornata a mostrarsi in forma smagliante.
Peraltro, ciò ha coinciso con un risveglio dell’interesse per gli studi dell’opera, come attestano la tesi di laurea di Laura Mirabelli e la dotta relazione di vari autori – Giuseppe Galbiati, Franz Graf, Giulia Marino – inclusa negli atti di un convegno, entrambi citati per esteso in fondo a questo articolo.
Mi resta da dire che le cose che ho scritto le ho apprese da varie fonti web e a stampa. E da una preziosissima fonte orale che risponde al nome dell’architetto Annalisa Baracchi, mia cara amica da tempo che ringrazio, la quale è stata responsabile dell’intervento che non definirei di “restauro conservativo” ma piuttosto di “restauro rinnovativo”, insieme all’ingegner Leonardo Paolini che si è occupato delle parti strutturali.
EMas (Emanuele Masiello) – Novembre 2022
Per saperne di più:
- A. Galardi Architettura italiana contemporanea, Milano, Edizioni di Comunità 1967
- A. Galardi, S. Zorzi, A. Bianco, L’edificio della nuova filiale Olivetti a Firenze, in “L’industria italiana del cemento”, giugno 1972, n. 6, XLII, pp. 389-410
- Il nuovo palazzo Olivetti a Firenze (Alberto Galardi), in “Bollettino degli Ingegneri” (periodico mensile), agosto-settembre 1972, nn. 8-9, anno XX, pp. 3-9
- Nuova filiale Olivetti, Firenze 1971, Architetto Alberto Galardi (rubrica “Schede di architettura”) in “Ottagono” (Rivista trimestrale di architettura, arredamento e industrial design), dicembre 1972, n. 27, anno VII, pp. 76-77
- La nuova filiale Olivetti a Firenze, architetto Alberto Galardi, presentazione di Giovanni Klaus Köenig, in “L’architettura – cronache e storia” (periodico mensile), gennaio 1973, n. 207, anno XVIII n. 9, pp. 576-583
- The corporate client – Olivetti builds, in “Progressive Architecture”, agosto 1973, pp. 50-57
- G. Gobbi, Itinerari di Firenze moderna, Alinea, Firenze 1987, p. 135
- A. Villa (a cura di), Silvano Zorzi: ingegnere 1950-1990, coll. di E. Martinelli, Electa, Milano 1995
- A. Galardi, Alberto Galardi Architetto, Fundacion Gordon, Buenos Aires, 2001
- L. Mirabelli, La filiale Olivetti di Firenze: analisi conoscitiva e proposte per il recupero, tesi di Laurea Magistrale LM5 discussa presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Pisa nel 2020
- G. Galbiati, F. Graf, G. Marino, L’innovazione leggera di Alberto Galardi e Silvano Zorzi: il Palazzo Olivetti di Firenze. In: P. Cucco, F. Ribera (a cura di), History of Engineering, Atti del 5° Convegno Internazionale, Atti del 9° Convegno Nazionale, Cuzzolin : Napoli 2022, pp. 1103-1116
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Si veda anche
LA VILLA BRODY-MONSANI / MIRABILE ICONA DI MODERNITÀ ARCHITETTONICA
Come sempre posso dire di aver molto apprezzato questo breve ma eloquente volo sull’edificio che, per primo, ha mostrato ai miei occhi di bambina le “magie” del cemento armato precompresso.
Mio padre (classe 1940), che da ragazzo era stato un fiero rappresentante della macchina da scrivere Olivetti, mi fece vedere questo edificio sul finire degli anni ‘80.
Un plauso all’ottimo intervento condotto dall’Archietto Baracchi e dall’Ing.Paolini.
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