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ADDIO A RICHARD ROGERS / MAESTRO DI ESTETICA DELLA TECNICA

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OMAGGIO ALL’ARCHITETTO ITALO-INGLESE, TRA I PIU’ ACCLAMATI AL MONDO, CHE HA IMPRESSO ALTO VALORE ALL’INGEGNO COSTRUTTIVO MODERNO 

Richard Rogers. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Nel costante flusso storico dei fatti architettonici, Richard Rogers (1933-2021) si è distinto soprattutto per essere stato un eccelso maestro di estetica della tecnica. Ovvero un maestro che ha impresso elevati valori artistici (ideativi, morfologici, materici, cromatici, etc.) alle soluzioni tecniche prescelte, quasi sempre innovative ed espresse con franchezza, mediante le quali l’architettura appare come realmente è fatta, rendendosi percepibile ai nostri occhi.

La sua recente scomparsa, all’età di 88 anni, lascia quindi un vuoto notevole nel panorama architettonico internazionale, entro il quale egli è stato un protagonista. Contribuendo in special modo ad arricchire la proteiforme cultura della modernità in ciò che riguarda gli impatti estetici delle tecnologie costruttive, che possono essere determinanti per ottenere risultati sorprendenti e ammirevoli.

La sede di Bedford Square in Londra dell’Architectural Association School of Architecture. Fotografia del 2009 da Wikimedia Commons

Gli studi (1954-59) presso l’Architectural Association School of Architecture (AASA) di Londra, che all’epoca era una delle poche a favorire la conoscenza delle esperienze moderne, furono molto importanti per la formazione di Rogers.  Che beneficiò inoltre del fecondo clima artistico di quegli anni, vivacizzato nel Regno Unito da varie figure di spicco tra cui i coniugi Alison & Peter Smithson che emersero quali protagonisti della cultura architettonica. Con l’intento di superare l’obsoleta esperienza dei CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), gli Smithson promossero e tradussero in progetti due innovazioni fondamentali dell’architettura che potremmo definire “post International Style”: il Brutalismo e lo Strutturalismo.

Il Brutalismo consisteva, in parole semplicissime, nel modo di usare i materiali costruttivi senza troppe finiture accurate, come nel caso del calcestruzzo quando è lasciato a vista. Anche gli impianti funzionali potevano essere lasciati a vista, acquisendo impatti visivi che non venivano affatto considerati negativi. Lo Strutturalismo esprimeva invece un modo di concepire l’architettura come processo compositivo che integrava le varie parti in sistemi unitari e coerenti, nei quali ciò che prevaleva era l’idea del pattern ovvero dello schema o modello che poteva virtualmente espandersi all’infinito. Furono la filosofia e l’antropologia culturale a costituire riferimenti per l’assorbimento dello Strutturalismo nel campo della progettazione architettonica e urbana. Al contempo, fu la rispondenza alla dialettica tra condizioni primarie e condizioni secondarie (ovvero permanenti e mutevoli), valorizzata da Auguste Perret e Le Corbusier, che continuò ad arricchire la fase storica di superamento del Modernismo razionalistico, quello per intendersi dei volumi squadrati e astrattamente formalizzati.

Richard Rogers (al centro) insieme a Norman Foster (a sinistra) e Carl Abbott (a destra) nel 1962 a Yale. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Un’altra esperienza importante per gli orientamenti che ne seguirono fu quella compiuta da Rogers presso la Yale School of Architecture (YSOA) di New Haven in Connecticut, USA.  Anch’essa una prestigiosa università privata che poté frequentare grazie all’ottenimento di una borsa di studio del Programma Fulbright, all’epoca molto ambita da chi aspirava ad avere successo nei campi delle scienze, delle arti e della cultura in generale.  A Yale, Rogers conseguì un master nel 1962, ossia nel periodo in cui era preside Paul Rudolph, uno dei più famosi architetti statunitensi dell’epoca. Il quale proprio in quegli anni stava erigendo il nuovo Art and Architecture Building (1958-63), osannato da molti critici come capolavoro brutalistico che mostrava tangibilmente le qualità espressive della scabre superficie esterne dei blocchi prefabbricati di calcestruzzo.

Su (Susan) Brumwell, partner professionale e prima moglie di Richard Rogers. Fotografia recente tratta dal sito https://www.normanfosterfoundation.org/

Alla stessa rigorosa scuola americana, non lontana da New York, studiò pianificazione urbana Su (Susan) Brumwell, che fu la prima moglie di Rogers nonché madre di suoi tre figli: Ab, Ben, Zad.  Susan lavorò a lungo anche come sua partner professionale, coltivando una specialità come la progettazione a scala sovra architettonica nella quale Rogers amò spesso cimentarsi. Suo compagno di studi a Yale fu inoltre Norman Foster, poco più giovane di Rogers, destinato a diventare anch’egli un celebre architetto a livello mondiale. Va comunque detto che gli inglesi ebbero la fortuna di stringere amicizia con un altro aspirante architetto, Carl Abbott, il quale essendo americano li guidò per gli Stati Uniti in cerca di architetture moderne, tra quali vi fu la casa dei coniugi Charles & Ray Eames, alla quale poi Rogers si ispirò.

Richard e Su Rogers, Rogers House (1968-69). Si tratta della casa per i genitori di Rogers, situata a Londra nell’area di Wimbledon. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Al ritorno a Londra, i sodalizi amicali furono sanciti con la creazione nel 1963 del Team 4, di cui facevano parte la coppia Richard e Su Brumwell Rogers, più la coppia Norman e Wendy Cheesman (dal 1964) Foster. (Da notare che Wendy Cheesman Foster era stata una precedente fidanzata di Rogers).

Inoltre, una partecipazione iniziale al gruppo la ebbe la sorella maggiore di Wendy, Georgie (Georgina) Cheesman (poi Wolton) la quale essendo l’unica architetta professionista consentì al Team 4 di operare senza problemi fino a quando gli altri ebbero acquisito l’abilitazione.  En passant, merita riferire che Georgie Wolton fu autrice della nota Fieldhouse in Crocknorth Farm, Surrey, ultimata nel 1969 e purtroppo smantellata nel 1993, che la critica britannica considera la prima opera d’architettura, ispirata alla Farnsworth House di Mies van Der Rohe e alla Glass House di Philip Johnson, in cui fu usato l’acciaio CorTen come materiale per la struttura primaria.

Richard e Su Rogers, Modello di progetto della Zip-Up house (1967-69), nella quale si prevede l’impiego di elementi metallici (da prefabbricare e assemblare in opera) che venivano solitamente usati per i prodotti industriali (frigoriferi, autobus, etc.). Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Il Team 4 operò per circa 4 anni, dissolvendosi nel 1967 per dare inizio, da parte di Rogers e Foster, a carriere professionali separate. Furono comunque anni importanti per l’incubazione delle preferenze tecnico-estetiche che si distinsero da quelle di altri architetti destinati a emergere internazionalmente. L’interesse del gruppo si incentrò infatti sullo studio di soluzioni innovative ma semplici e funzionali, mutuate dalla pratica ingegneristica e industriale, alle quali si mirò a conferire valori estetici, non dissimili da quelli brutalistici, consistenti nell’accentuare l’impatto visivo delle strutture portanti e delle dotazioni impiantistiche.

Team 4, La sede della Reliance Controls (completata nel 1967) vicino Swindon, UK. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/)

Primo significativo esito di tali ricerche fu la sede della Reliance Controls vicino Swindon (UK), completata nel 1967. Che utilizzava materiali ordinari ed economici (profilati HE per le strutture portanti verniciate di bianco, lamiere d’acciaio per i rivestimenti e la copertura, tiranti diagonali, etc.), traendo spunti tanto da alcune Case Study Houses californiane quanto dalla nota Hunstanton School di Alison & Peter Smithson. L’edificio della Reliance Controls appariva pertanto semplice ed essenziale nella sua espressione d’insieme, eppure elegante ed accurato nel suo aspetto innovativo.  Quando si prospettò la sua demolizione (avvenuta nel 1993), Rogers non patì comunque più di tanto giacché non si ritenne in diritto di preservare un’opera divenuta obsoleta. Una posizione, la sua, senz’altro comprensibile, quantunque sia facile immaginare cosa accadrebbe qualora fosse avallata per tanti edifici di pregio storico.

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Del resto Rogers è stato tutt’altro che un architetto conformista o dalle idee loffie, avendo talvolta persino scandalizzato per l’audacia delle sue proposte.  Lo ben dimostra il fatto che egli assorbì con spirito empatico le dirompenti esperienze delle Neo-Avanguardie, che costituirono in architettura e urbanistica un parallelo di ciò che avveniva nel campo delle arti visive.  Mi riferisco soprattutto alle opere dei Metabolisti giapponesi e degli Archigram inglesi, che negli anni ‘60 sconvolsero le abitudini progettuali di coloro che erano soliti praticare il mestiere dell’architetto o dell’ingegnere senza tanti slanci di fantasia. Ad essi aggiungerei gli apporti di altre personalità che considero importanti per la creazione di un ambiente favorevole all’arricchimento della sensibilità di Rogers. Mi riferisco tra gli altri all’architetto Cedric Price, autore del famoso progetto non realizzato (1961) per un Fun Palace (un palazzo dei divertimenti), che destò notevole interesse come fonte di ispirazione.

Il Centro Pompidou (1971-76) nel panorama di Parigi che si ammira dalla collina di Montmartre. Fotografia del 2014 di Dietmar Rabich, da Wikimedia Commons
Renzo Piano e Richard Rogers nel 1977. Fotografia d’archivio del Centro Pompidou.

L’opera che procurò a Richard Rogers un’eccezionale notorietà internazionale fu, come è alquanto noto, il Centro Georges Pompidou (o Beaubourg) di Parigi, il cui concorso fu vinto nel luglio del 1971 insieme all’architetto italiano Renzo Piano. Il quale riscosse anch’egli un successo tale da segnare per sempre la sua altrettanto brillante carriera di insigne maestro dell’architettura mondiale. Quale dolente espressione d’affetto per la scomparsa del suo fraterno amico, Piano ha dichiarato che “lui era quello bravo dei due“, aggiungendo che una particolarità del carattere di Rogers era la sua “eleganza d’animo“.

Non vorrei però sottacere il ruolo che ebbe nella vicenda del centro culturale parigino l’ingegnere strutturista Peter Rice, protagonista peraltro di alcuni dei più grandiosi e impegnativi cantieri del suo tempo.

Il Beaubourg nel contesto della città e dei monumenti di Parigi. Sullo sfondo, la Basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre. Fotografia tratta da https://www.avvenire.it/agora/pagine/beaubourg-centre-pompidou-renzo-piano-richard-rogers-anniversario

I pregi architettonici del Beaubourg sono tanti e non è in questo articolo che possono essere riesposti e magnificati. Vorrei però solo accennare al dirompente impatto visivo che ebbe l’edificio nell’area centrale di Parigi entro la quale, seppure ispirato alle architetture industriali e produttive più che agli storici edifici culturali, si impose come presenza solo inizialmente estranea.

Giacché in poco tempo l’edificio acquisì una facies molto familiare, da generatrice del genius loci, analogamente a ciò che era accaduto poco meno di un secolo prima per la Tour Eiffel. Dimostrando con ciò che l’estetica dell’architettura ingegneristica, nella capitale del Paese dell’esattezza tecnica e dell’orgoglio culturale, poteva benissimo continuare a costituire, nella sedimentazione storica di nuovi apporti antropici, un paradigma chiave dei modi audacemente moderni di arricchire il paesaggio urbano.

Il Lloyd’s building (1978-86) e il Willis buildings (a sinistra) nella City di Londra. Fotografia del 2011 da Wikimedia Commons

Le stravaganti fattezze del Beaubourg, e l’enorme successo mediatico che l’edificio ebbe mondialmente, procurarono a Rogers e a Piano una gloria alla quale forse solo pochissimi architetti non vorrebbero ascendere. I critici, dal canto loro, non tardarono a iconizzare l’opera quale emblema dell’Architettura High-Tech (dell’Alta Tecnologia). Una corrente ipermodernistica, che rinverdiva i fasti del Futurismo e del Costruzionismo, alla quale furono ascritti sia Rogers e Piano sia Foster, insieme ad altri talentuosi esponenti tra cui Michael Hopkins e Nicholas Grimshaw sempre in UK.

Il Lloyds building (1978-86) nella City di Londra.  L’altissima corte interna coperta da un lucernario trasparente (evidenti sono i richiami al Larkin Building di Frank Lloyd Wright) è attraversata dalle scale mobili di cui sono lasciati a vista i meccanismi di scorrimento di colore giallo. Fotografia del 2011 da Wikimedia Commons

Ricordo che quando verso la fine degli anni ‘90 mi recai a Londra insieme al mio amico Ezio Godoli, insigne storico di architettura moderna, mi interrogai a lungo in merito al giudizio da potersi esprimere sulla nuova sede dei Lloyd’s (1978-86), poi dichiarata monumento di Grado I (di eccezionale interesse).

Coi suoi pannelli di rivestimento d’acciaio e i suoi ascensori trasparenti collocati all’esterno, alla maniera del futurista Antonio Sant’Elia, l’edificio s’ergeva imponente e volutamente dissonante nella City di Londra, densa di grattacieli. Dimostrando di avere ben resistito alle critiche della stampa e al biasimo del Principe Charles che negli anni ’80 s’era fatto alfiere di stili architettonici neotradizionalisti.  L’interrogativo restò però sospeso, a conferma che non è detto che si possano  esprimere, sempre e comunque, giudizi convinti e meditati sulle opere d’arte, essendo la critica un esercizio che il più delle volte non dà responsi certi.

Rogers comunque s’innalzò ancor più alla notorietà internazionale, acquisendo l’appellativo di archistar che fu molto in voga a quei tempi, designando in architettura chi s’era distinto quale fenomeno anche mediatico della globalizzazione comunicativa.

Il centro di ricerche PA Technology (1982-85) in Princeton, New Jersey, USA. Disegno di progetto. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Altre opere di Rogers che mi piacciono parecchio e che considero emblematiche del suo modo maturo di fare architettura ingegneristica sono lo stabilimento INMOS (1982-87), vicino a Gwent in Wales (UK), e il centro di ricerche PA Technology (1982-85) vicino alla città universitaria di Princeton in New Jersey (USA). In entrambe  vi è uno scheletro primario centrale, composto dall’iterazione di studiati piloni metallici ai quali sono fissati i tiranti che reggono lateralmente le coperture dei volumi ove si svolgono le attività. Questi ultimi non necessitano all’interno di sostegni intermedi e sono pertanto totalmente fruibili, offrendo la massima flessibilità nell’uso degli spazi che credo sia stato per Rogers quasi sempre un obiettivo primario da raggiungere.

Il centro di ricerche PA Technology (1982-85) in Princeton, New Jersey, USA. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

I congegni costruttivi, di per sé esili e lineari essendo metallici, sono evidenziati con franchezza e sono verniciati di azzurro a Gwent e di rosso a Princeton. Grande attenzione è prestata al design dei giunti, dei nodi, delle connessioni, etc. ai quali è conferita particolare valenza estetica. A Princeton essi hanno insolita forma di dischi circolari, primari e secondari, che agevolano il fissaggio dei cavi mediante bulloni.  Gli apparati impiantistici sono lasciati con altrettanta schiettezza a vista, quali complementi funzionali che integrano l’insieme delle parti di cui gli edifici sono composti.

La Millenium Dome (1996-99) nell’area di Greenwich in Londra. Fotografia del 2004 da Wikimedia Commons

Vi sono numerose altre opere che danno ampiamente conto degli alti meriti raggiunti da Rogers nel mondo dell’architettura e dell’ingegneria. Tra esse si possono citare: la sede della Corte dei Diritti dell’Uomo (1989-95) di Strasburgo; il Palazzo di Giustizia (1992-98) di Bordeaux; la Millenium Dome (1996-99) di Londra; il Terminal 4 (1997-2006) dell’aeroporto di Madrid-Barajas; la Senedd Cymru (1998-2005), ovvero il Parlamento gallese di Cardiff; l’Esperia Hotel (1999-2006) di Barcellona.  Per un elenco pressoché completo, con molte notizie e immagini, si rimanda al sito dello studio Rogers Stirk Harbour + Partners (composto come senior partners oltre che da Rogers da Graham Stirk e Ivan Harbour) che fu creato nel 2007 come prosecuzione dello studio Richard Rogers Partnership fondato nel 1977, dopo la fine della società con Piano.

La Senedd Cymru (1998-2005), sede del Parlamento gallese di Cardiff. Fotografia tratta da https://www.rsh-p.com/

Si tratta di opere che hanno come denominatore comune il forte impatto visivo, connesso in primis al design della tecnologia costruttiva e impiantistica, audace e innovativa ma al contempo logica e chiara, pratica e razionale.  Più che “la forma segue la funzione”, come sentenziò l’architetto statunitense Louis Sullivan, potremmo dire che per Rogers “la forma segue la costruzione“, ovvero la venustas segue la firmitas, senza comunque inficiare la utilitas.  Per questo ritengo che Rogers sia stato un maestro di estetica della tecnica, ovvero un sommo esperto di tecnologie ingegnose, quasi sempre mutuate dall’industria e quindi composte da elementi prefabbricati e assemblabili in cantiere, alle quali è stata affidata l’espressione dei valori precipui dell’architettura intesa come forma d’arte.

Un cenno finale vorrei farlo al Leadenhall Building (2000-2014), un mastodontico grattacielo piazzato nella City di Londra. La sua forma con un lato inclinato (che per i londinesi somiglia a quella di un’enorme “grattugia”) sarebbe stata imposta dall’esigenza di non occludere da Fleet Street la veduta della Cattedrale di Saint Paul. Cosa che però parrebbe assurda dal momento che le vedute non possono considerarsi statiche e monodirezionali. In questo caso, più ancora che per i Lloyds, l’astensione dal giudizio è d’obbligo.

Richard Rogers si aggira tra i plastici dei progetti di masterplan presentati alla mostra London as it could be, tenutasi alla Royal Academy of Arts di Londra nel 1986. Fotografia tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Oltre che come progettista, va detto che Rogers si è distinto per aver svolto numerose e varie altre attività, quali quelle di docente, saggista, consulente capo in architettura e urbanistica del Mayor laburista di Londra Ken Livingstone, etc.  Come ho accennato, egli si dedicò peraltro frequentemente allo studio delle tematiche urbane, elaborando progetti talvolta avveniristici, per non dire quasi visionari, come quelli esposti  alla mostra London as it could be del 1986 alla Royal Academy di Londra.

Rogers ricevette inoltre molti premi e riconoscimenti, che includono nel 1985 la RIBA Gold Medal, nel 2000 il Praemium Imperiale del Giappone, nel 2006 il Leone d’Oro alla carriera alla 10a Mostra d’Architettura di Venezia, nel 2007 il Pritzker Prize (quest’ultimo considerato il più prestigioso e lauto di tutti). Nel 1996 gli fu altresì conferito il titolo onorifico di Barone Rogers di Riverside.

Il che attesta che seppe meritarsi il plauso anche dell’establishment,  per quanto avesse un carattere tutt’altro che cerimonioso, come dice chi lo ha conosciuto, ma anzi aperto e franco, oltre che socievole e gioviale, per nulla altezzoso del raggiunto status di famoso architetto.  Spinto da sanguigna fiducia nell’avvenire, Rogers era altrettanto favorevole al confronto di opinioni, alle sinergie di gruppo, all’esplorazione di nuove strade, ponendo comunque sempre attenzione agli aspetti pratici e concreti, alla sostanza della soluzione dei problemi più che alla loro cosmesi.

Richard Rogers in occasione della mostra retrospettiva per la celebrazione dei suoi 80 anni tenutasi nel 2013 alla Royal Academy of Arts di Londra. Fotografia di Benedict Johnson tratta dal sito https://www.designboom.com/

Vorrei infine ricordare che Rogers era nato nel 1933, da una famiglia italo-britannica, a Firenze, città dove aveva vissuto i primi anni della sua infanzia prima di trasferirsi nel 1938 in Inghilterra per fuggire dal Fascismo. Come racconta nel libro Un posto per tutti \ Vita, architettura e società giusta (Johan & Levi, 2018), egli rimase comunque parecchio legato all’Italia, le cui parentele includevano l’eminente architetto Ernesto Nathan Rogers, fondatore de gruppo BBPR, il quale era cugino di suo padre William Nino Rogers e quindi zio alla lontana del giovane Richard, che ne seguì le orme.

Le sue radici italiane non furono peraltro mai recise, giacché egli amava trascorrere le vacanze estive, insieme alla sua seconda moglie Ruthie da cui ebbe i figli Roo e Bo, in una casa di campagna nei dintorni di Pienza. Una casa modesta, da cui si poteva godere la vista di un paesaggio sconfinato e provvista di un grande tavolo su cui poter disegnare all’aperto, che mi fa venire in mente quella dove abitò l’architetto statunitense Craig Ellwood, sulle colline del Valdarno.

Arno Masterplan (1983-84). Disegno prefigurativo delle discese pedonali dal lungarno al fiume, nei pressi di Ponte Vecchio che si riconosce in prospettiva.  Immagine tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Per la capitale toscana egli elaborò negli anni ’80-’90 vari progetti, tra i quali un Masterplan per l’area urbana dell’Arno (1983-84), insieme all’architetto italiano Claudio Cantella quale co-autore.

Si tratta della proposta di un parco lineare lungo le sponde del fiume, che prevedeva la creazione di camminamenti pedonali continui e luoghi di sosta, affacciati sull’acqua e persino a contatto di essa, che miravano a ricreare i perduti rapporti un tempo diretti tra gli abitanti di Firenze e l’Arno.

Ricordo che il progetto destò notevole interesse e fece alquanto discutere, giacché in alcuni tratti i percorsi costeggiavano audacemente a sbalzo i lungarni, prefigurando la riconquista di spazi e vedute a cui da tempo non si aveva più accesso, a causa del traffico veicolare che aveva invaso ovunque le strade.

Arno Masterplan (1983-84). Disegno che illustra i collegamenti pedonali tra le principali piazze di Firenze situate sulle due sponde del fiume.   Immagine tratta dal sito https://www.rsh-p.com/

Vi è da dire che ancora oggi, osservando le spallette murarie lungo l’Arno, a cui sono ancorati alcuni tratti di possibili camminamenti in aggetto su beccatelli, si capisce bene che l’idea progettuale era tutt’altro che peregrina e poco realizzabile.

Per onorare la memoria di Rogers, visto che il progetto fu commissionato dal Comune di Firenze che ne è tuttora proprietario, come riferitomi da Claudio Cantella, non riterrei una idea bislacca quella di riprendere in mano gli elaborati per valutare se oggi, seppure a distanza di circa 40 anni, l’ambizioso intervento possa essere proficuamente attuabile. A beneficio della città e dei valori progettuali che potrebbero ancor più arricchirla.

EMas (Emanuele Masiello) – Dicembre 2021 (agg. marzo 2023)

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