AUTONOMIA DIFFERENZIATA E RISCHI PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI

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CONSIDERAZIONI SUL DISEGNO DI LEGGE CHE ASSEGNEREBBE, ANCHE IN MATERIA DI BENI CULTURALI, MAGGIORE AUTONOMIA ALLE REGIONI A STATUTO ORDINARIO

 

Quando furono approvate nel 2001 le modifiche al Titolo V della Costituzione, volute dal centro-sinistra, vi fu un serrato dibattito tra chi era convinto che le competenze in materia di tutela di beni culturali dovessero restare di “legislazione esclusiva” dello Stato, e chi era invece favorevole a includerle tra quelle di “legislazione concorrente“, spettanti allo Stato e alle Regioni.

Ricordo che Antonio Paolucci, che è stato un alto dirigente ministeriale per molti anni e anche ministro, si oppose con fermezza alla proposta di trasferire le competenze alle Regioni, perorandone al contrario il mantenimento in capo allo Stato, per ragioni varie, come poi fu deciso nel testo definitivo dei rinnovati articoli 116 e 117 della carta costituzionale. Il che sancì di fatto la riattribuzione di valore all’assetto di potere centralistico che, anche in materia di beni culturali, era prevalso in Italia all’indomani dell’unificazione nazionale raggiunta nel 1861, pensistendo nei decenni successivi.

Senonché, con la recente proposta attuativa delle modifiche apportate al Titolo V della Costituzione, è balzato all’attenzione un aspetto che era rimasto un po’ ignorato.  E cioè che le materie oggetto di possibile autonomia differenziata (o per melio dire “speciale”), su eventuale richiesta delle Regioni a statuto ordinario, non sono solo quelle definite (all’art. 117) di competenza concorrente o residuale, ma anche quelle di competenza esclusiva dello Stato, di cui alle lettere l), n) ed s), ove la lettea s) riguarda per l’appunto “la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e beni culturali“.  Di fatto, e malgrado l’evidente contraddizione, è emerso con chiarezza che nel mentre fu stabilito che varie materie restassero di esclusiva competenza dello Stato, contestualmente si ammise la possibilità che tre delle suddette materie potessero divenire di competenza delle Regioni a statuto ordinario, interessate a chiedere maggiore autonomia. La qual cosa, del resto, non confliggerebbe col riformulato art. 9 della Costituzione, facente parte dei 12 articoli riguardanti i principi fondamentali, laddove ha statuito che è la Repubblica (nel suo insieme) che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Se ciò che si prefigura all’orizzonte sia giusto o sbagliato non lo si può dire a priori. Pier Luigi Bersani, col suo eloquio mordace, ha detto che potrebbe esserci bisogno di un “nuovo Garibaldi“, se dovesse andare in porto il DdL n. 615, ossia il testo di legge promosso dal ministro leghista Roberto Calderoli, passato alla Camera dopo l’approvazione del Senato. Aggiungendo che potremmo trovarci a vivere in uno “Stato arlecchino“, dove ogni Regione potrebbe scegliere, come in un menu à la carte, le gradite materie di cui assumere le competenze (in tutto 23, sommando alle 20 di legislazione concorrente le 3 di legislazione esclusiva). E che Bersani abbia un po’ di ragione non lo si può negare, anche se per onestà andrebbe detto che fu proprio la sua parte politica a volere la riforma costituzionale che consente di promuovere la legge che in tanti adesso osteggiano. Un paradosso, che ben riflette le mutevoli posizioni che spesso connotano il dire degli esponenti politici nel nostro Paese.

Sta di fatto che al cospetto dello Stato italiano, già sgangherato di suo quanto basta e avanza, si ha più che ragione nel dubitare che le Regioni, che sono in genere ancora più sgangherate sul piano organizzativo, riescano a far meglio.  Bisognerebbe quanto meno che le Regioni diventassero come degli Stati, ma questa è in Italia un’evenienza al momento utopica.  Seppure, giova ricordarlo, varie Regioni attuali non siano altro che le eredi di storici Stati pre-unitari, come la Toscana che esistette per quasi tre secoli come Granducato, fondato nel 1569 Cosimo I de’ Medici.

Giusto per far capire quanto le cose siano cambiate in peggio, e per portare un esempio concreto, si può osservare che in una qualche Regione si debba prendere atto che gli uffici preposti all’attuazione delle casse di espansione (volte ad attenuare le eventuali dannose piene dei fiumi) siano nettamente separati dagli uffici che si occupano di viabilità, anche quando questi ultimi si occupano dei progetti di nuove strade che si snodano sugli argini che chiudono le medesime casse di espansione.  Il che significa che in un Paese come l’Italia continuano ad essere non rare le situazioni in cui, come s’usa dire,  la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra, e ciò purtroppo non solo in ambiti regionali. Anche negli intricati gangli dello Stato non mancano infatti disfunzioni, sovrapposizioni di competenze, sprechi di risorse, etc., tali da far dubitare che sicure migliorie si otterrebbero solo cambiando i legiferatori.  Come sostengo da tempo, i “corpi tecnici”, sui quali si regge il funzionamento di una qualsiasi entità governativa, sono stati ridotti ormai in Italia a ben poca cosa.  Purtroppo però in pochi hanno finora dedicato all’argomento la primaria e urgente attenzione che meriterebbe.

Per esperienza personale potrei comunque dire che le Regioni, nei settori che più conosco, funzionano meno efficacemente dello Stato, ed è questo un aspetto da non trascurare nelle valutazioni da compiere in merito alla legge di cui si discute, sull’autonomia differenziata. Certo, non è detto che tutte le Regioni vorranno chiedere maggiore autonomia, considerato tra l’altro che in poche utilizzano i notevoli poteri consentiti da tempo dal vigente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, specie in tema di fruizione e valorizzazione del patrimonio. Non bisogna però dimenticare che la Lombardia e il Veneto, pochi anni fa, organizzarono dei referendum regionali consultivi, che includevano anche la materia dei beni culturali, tra quelle da poter attribuire  alle competenze regionali.  La qual cosa attesta, specie al nord, che la volontà di accrescere il potere decisionale degli enti regionali è più forte che altrove. Almeno per il momento.  Ad ogni modo, comunque la pensino statalisti e regionalisti, la prospettiva che ogni Regione si muova per conto suo, senza alcuna regia nazionale e senza alcuna catena di comando tra centro e territori periferici, desta interrogativi di non semplice risposta. Che inducono preoccupazioni non tanto per i rischi di aggravio del divario tra Nord e Sud, come paventano i contrari alla legge di cui si parla, ma per i rischi di ulteriore e deleteria proliferazione normativa.

E’ pur vero che in alcune nazioni estere, come per esempio in Germania, le competenza spettano alle Regioni o agli Stati (i Länder federati), ma va detto che si tratta di entità territoriali che storicamente si sono sempre occupate della materia, e che quindi possiedono le capacità tecniche e scientifiche per continuare a tutelare e valorizzare degnamente il patrimonio culturale.   Diverso è il caso di altre nazioni, come per esempio la Francia, ove invece ha prevalso il centralismo che affida allo Stato i compiti di legiferare e orientare le politiche in materia di tutela del patrimonio, perseguendo il decentramento amminitrativo tramite le DRAC (Directions Régionales des Affaires Culturelles).

L’esperienza italiana, per quanto storicamente sia stata analoga a quella tedesca (si pensi agli Stati e Staterelli di memoria scolastica), si è però delineata dopo l’Unità non molto diversamente da quella francese, con l’istituzione nel 1974 di un Ministero della Cultura ad hoc che da allora si occupa di tutela del patrimonio, per il tramite dei suoi uffici centrali e periferici.  Ipotizzando di avvicinarci alla realtà tedesca, come potrebbe accadere con l’entrata in vigore della legge di cui trattasi, non credo sia negabile l’eventualità che in Italia si torni, anche non volendolo, a situazioni simili a quelle in cui esistevano gli Stati pre-unitari (si pensi allo Stato della Chiesa che pure si distinse per l’emanazione, nel 1820, dl noto “Editto Pacca” sulla protezione del patrimonio artistico). Il che, beninteso, non è detto che sia di per sé dannoso, essendo molto diverse le strade mediante le quali una Nazione (nelle varie articolazioni repubblicane) può perseguire le sue finalità istituzionali.

Potrebbe anzi essere  una sfida, una scommessa sulla possibilità di migliorare la condizione dei nostri beni culturali, confidando sul fatto che le singole “intese” tra Stato e Regioni interessate, espressamente previste dall’art. 116 del DdL n. 615, siano studiate e definite al meglio.  Sperando comunque che non si ecceda con la legiferazione, come purtroppo è avvenuto nei casi in cui altre materie (l’ambiente, il paesaggio, etc.) siano divenute di competenza concorrente, col risultato che si è reso ancor più ingarbugliato il quadro delle fonti normative.

Il fatto è che, con l’avvenuta riforma del Titolo V della Costituzione, ci siamo spinti a un punto tale nella direzione dell’affidamento di maggiore autononomia alle Regioni che adesso parrebbe molto difficile fare marcia indietro o fermarsi, lasciando incompiuto l’iter di riassetto istituzionale che fu immaginato all’epoca. A meno che non si decida di mandare tutto all’aria, abrogando le modifiche che furono introdotte dalla riforma. Facendo con ciò venir meno la possibilità che le Regioni a statuto ordinario possano chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Ma tale eventualità richiederebbe una nuova e lunga procedura di modifica della Costituzione, col rischio di condannare al definitivo fallimento il regionalismo che ha goduto negli ultimi decenni di ampio sostegno politico e sociale, da parte di molte forze politiche.

Non credo che siano mai stati fatti studi comparativi, che riterrei indispensabili, sull’efficacia della tutela del patrimonio culturale a opera in primis delle Soprintendenze, nelle varie Regioni d’Italia (a statuto ordinario o speciale). Per quel che è dato conoscere, della realtà attuale, penso comunque che se alcune Regioni chiedessero di assumere le competenze in materia di tutela dei beni culturali, nelle diverse forme ammissibili, i rischi che si vada a disgregare il quadro d’insieme esistono eccome. E le preoccupazioni a tal riguardo non mancano. Specie se la maggiore autonomia fosse attribuita a Regioni piccole e per così dire “poco attrezzate”, riguardo alle molteplici e specifiche attività che concretano l’esercizio della tutela. La quale, come si legge nel citato Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (all’art. 3, comma 1), “consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione“.

Al di là di tutto il resto, c’è da auspicare che le disposizioni di eventuali leggi regionali non impediscano che in determinate situazioni possano intervenire organi gerarchicamente superiori, per esempio tramite il potere avocativo e/o sostitutivo da parte dello Stato, nei casi in cui l’esercizio della tutela non risulti attestato su standards elevati.  Per intendersi, il diritto di un monumento calabrese ad essere protetto e conservato degnamente non può essere minore, sul piano giuridico, del diritto di un monumento piemontese.  L’Italia, del resto, con l’enorme patrimonio culturale che possiede, che è in buona parte “patrimonio dell’umanità” per quanto dichiarato tale dal’UNESCO, non può permettersi di raggiungere livelli minori a quello dell’eccellenza nel decidere chi debba legiferare in materia.

Sono ad ogni modo convinto che il tema di cui trattasi dovrebbe essere oggetto di ampio dibattito pubblico, non potendo ammettersi che siano assunte decisioni di tale importanza per la Nazione, senza un minimo di previsioni in merito agli effetti che potremmo attenderci. Peraltro, parrebbe non molto chiaro come verrebbe declinata l’applicazione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) alla materia dei beni culturali.  Altresì, non è ben chiaro come avverrebbe il passaggio di risorse umane e strumentali, dall’attuale Ministero della Cultura alle Regioni che decidessero di fare a meno dello Stato. Ma, come viene detto dai più fiduciosi, per trovare risposte a tali e ad altri quesiti non mancheranno le occasioni nel prosieguo dell’iter approvativo della legge e del compimento dei passi successivi.

Vorrei comunque ribadire e sottolineare che le speranze di miglioramento della tutela del patrimonio culturale in Italia, specie di quello immobile, non dipendono solo da chi se ne occuperà, più o meno efficacemente, ma da come la materia verrà tenuta non disgiunta da altre importanti materie. A cominciare da quelle concernenti l’ambiente e più in generale il governo del territorio (opere pubbliche, urbanistica, edilizia, decoro urbano, etc.).  Basta conoscere un po’ la realtà per capire che l’accorpamento e/o il coordinamento delle suddette competenze, a tutti i livelli territoriali di governo, è assolutamente necessario.

EMas (Emanuele Masiello) – 28 gennaio 2024

 


 

L’attuale sede principale del Ministero della Cultura, ovvero il Collegio Romano della Compagnia di Gesù fondato da Papa Gregorio XIII (Architettura di Bartolomeo Ammannati), in un stampa da incisione di Alessandro Specchi, autore del disegno e intaglio (1699)

 


 

Riferimenti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Legislazione_italiana_dei_beni_culturali

https://aedon.mulino.it/archivio/2003/2/accettura.htm

 


 

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