Ricordo che mi capitò di porre attenzione alla parola kitsch riflettendo sulla definizione tratta dal libro curato da Gillo Dorfles che aveva per titolo Il Kitsch / Antologia del cattivo gusto (1a edizione Mazzotta 1968, seguita da varie altre edizioni in più lingue). Un volume che per inciso apprezzai molto, fin quasi alla mitizzazione, per le spiegazioni che forniva anche mediante esempi concreti e in rapporto a concetti analoghi seppur non sinonimici (quale ad esempio il trash, etc.).
Per gli autori dei contributi e dei saggi, il kitsch era una qualità estetica che non poteva essere condannata a priori senza averne prima compreso il significato specifico, nel mare magnum dei gusti più disparati inclusi quelli insoliti e bizzarri. Risalendo ai possibili etimi del vocabolo kitsch, quale sostantivo d’origini tedesche, v’era comunque concordanza nel riferirne la definizione non tanto a ciò che appariva brutto, sgraziato, orribile, ovvero a ciò che poteva ritenersi opposto o diverso dal bello.
Il senso più autentico del kitsch (specie a parere dello scrittore austriaco Hermann Broch che al kitsch aveva dedicato tante pagine) andava invece colto in ciò che appariva come “imitazione non riuscita” di modelli di pregio, ovvero imitazione scadente, dozzinale, banale, volgare, posticcia, etc. Tali erano (e continuano ad essere) le imitazioni di celebri opere d’arte, eseguite con materiali poveri e in dimensioni quasi sempre molto minori degli originali. Rivolte al consumo di un’utenza di massa, poco danarosa, spesso ignara del significato di kitsch e del valore (o disvalore) culturale che permea l’invogliamento dei loro acquisti.
Nel senso sopra detto, neppure l’architettura è rimasta indenne dalle seduzioni del kitsch, come dimostrano a Las Vegas le tante imitazioni di famose opere autentiche (Piramidi, Tour Eiffel, etc.), o in varie altre parti del mondo i tanti outlets che replicano solo esteriormente le fattezze dei borghi di antiche origini.
Negli esempi citati non si può tuttavia affermare che siano totalmente mancati la coscienza critica e la creatività, ovvero i fattori che altresì distinguono per Walter Benjamin l’arte vera dal kitsch, che “offre una gratificazione emotiva istantanea senza sforzo intellettuale”.
Pertanto, quando mi sono imbattuto nella vetrina di un negozietto di Firenze, piena zeppa di oggetti che più kitsch di loro non potevano essere – tanti David di Michelangelo con i colori della bandiera italiana (verde, bianco e rosso) o con altri colori vistosi (blu, viola, etc.), tanti modellini grandi solo poche decine di centimetri del Duomo di Santa Maria del Fiore (con Cupola di Brunelleschi, Campanile di Giotto), etc. – avrei voluto complimentarmi col venditore. Meritevole ai miei occhi di aver creato, pur limitandosi a esporre le merci con accurata paratassi, uno strabiliante horror vacui di cadeaux e souvenirs per turisti di aspetto icasticamente kitsch, secondo l’invalsa accezione tramandata da Gillo Dorfles e dagli esegeti coautori del suo libro.
Passando per quel negozio si ha chiarissima l’idea di cosa debba intendersi per oggettistica kitsch. Una paccottiglia da pochi soldi, densa però di stimoli per la mente e per gli occhi, che nell’insieme di altre evidenze attesta la persistenza d’un gusto da molti aborrito, ma non per questo scomparso. Che suscita ancora oggi la nostra curiosità di indagatori ed esplicatori di ciò che in vari modi non è da reputarsi totalmente estraneo alla cultura artistica.
Nell’ambito della Pop Art e della Conceptual Art, giova ricordarlo, non sono mancate esperienze che hanno operato sui risvolti culturali, talvolta inconsapevoli, insiti nel mero consumo venale di oggetti ultra banali, copiati beceramente dagli originali.
La palese mercificazione dell’arte colta, per quanto esecrabile, continua quindi a prosperare nell’oggettistica a buon mercato che nel kitsch è quasi totalmente immersa. Provocando istintivo rifiuto senza tuttavia smettere di costituire una peculiare fonte di riflessioni per il divenire storico di varie tendenze sociali e di gusto.
Seppure quale fenomeno marginale, appannaggio ormai di un commercio al minuto che da tutto tende a lucrare, non parrebbe quindi che il kitsch abbia oggi mantenuto il solo valore di termine di comparazione rispetto al quale ci illudiamo di possedere superiori ed elitarie raffinatezze estetiche, non altrimenti attestabili.
EMas (Emanuele Masiello) – luglio 2022
Le tue news sono sempre di mio gradimento e le leggo con piacere. L’articolo sul kitsch è interessante non solo perché coglie un aspetto tipico della nostra città ma anche perché affronta il tema nei vari aspetti.Io non mi sento di definire il kitsch brutto e sgraziato opposto al bello ma ritengo più appropriata la definizione di W.Benjamin che lo definisce “una gratificazione emotiva istantanea senza sforzo intellettuale “.
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