LA FLÈCHE DU GÉNIE CIVIL ALL’EXPO DI BRUXELLES 1958 / STRABILIANTE EFFIGE D’AUDACIA TECNICO-ESTETICA

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RICORDO DI UN’ARCHITETTURA “SCULTOREA” DI STRAORDINARIO PREGIO, CHE FU PURTROPPO DISTRUTTA CON SCONSOLANTE INSIPIENZA

Targa commemorativa del padiglione del Genio Civile del Belgio all’Expo di Bruxelles del 1958

A quanti è capitato di chiedersi quali siano stati gli antecedenti di un’opera architettonica di eccezionale audacia morfologica, quale la Stazione dei Pompieri (1990-93) costruita su progetto di Zaha Hadid nel campus dell’azienda Vitra di Wheil am Rhein in Germania, una risposta può essere trovata nel Padiglione del Genio Civile del Belgio, ideato dall’architetto Jean Van Doosselaere in collaborazione con l’ingegnere André Paduart e lo scultore Jacques Moeschal, per la famosa Esposizione Universale di Bruxelles del 1958.

Il modello del padiglione. Si osservi la passerella sospesa, percorrendo la quale i visitatori potevano ammirare la sottostante mappa del Belgio su cui erano indicate le opere realizzate dal Genio Civile.

Sintesi di ingegneria, architettura, scultura

Fuori dal Belgio, gli artefici di questa strabiliante sintesi espressiva di architettura, ingegneria e scultura, non hanno raggiunto grande notorietà, sebbene abbiano lavorato molto intensamente nei loro rispettivi campi, ricevendo anche importanti premi e riconoscimenti.

Jean Van Doosselaere (1919-2000) si è distinto per aver saputo declinare abilmente, in molti edifici e complessi urbani, il modernismo architettonico di matrice razionale e funzionale che intorno alla metà del XX secolo predominava nel mondo occidentale. Egli fu anche presidente della prestigiosa Société Centrale d’Architecture del Belgio, che aveva avuto tra i suoi iscritti una personalità del calibro di Victor Horta. André Paduart (1914-1985) dal canto suo, era specializzato nell’uso del calcestruzzo cementizio armato e, più nello specifico, nelle ‘vele’ o ‘superfici a guscio’ come allora si chiamavano. Jacques Moeschal (1913-2004) si era formato in gioventù come architetto, ma il grande successo che ebbe il progetto in cui fu coinvolto lo spinse in seguito a dedicarsi alla scultura monumentale, a cui fu data notevole importanza per valorizzare artisticamente gli spazi pubblici.

La presentazione del modello del padiglione alle autorità

L’integrazione delle competenze possedute dai tre autori fu la premessa indispensabile per far sì che La Flèche du Génie Civil (ovvero la ‘Freccia’ del Genio Civile, come fu detta), costituisse l’exploit della loro intera carriera professionale. Un’opera tra le più ardite, tecnicamente ed esteticamente, tra quelle realizzate nel XX secolo non solo in Belgio, alla quale i figli di Van Doosselaere hanno dedicato lo specifico sito web www.flechedugeniecivil.be.

Strabiliante arditezza costruttiva

L’aspirazione iniziale fu quella di creare un padiglione che esprimesse icasticamente il valore dei grandi progressi dell’ingegneria costruttiva che il Belgio mirava a raggiungere in quegli anni di forti successi economici e industriali. Per espressa richiesta del professor Gustave Willems, alto funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici e capo del “Groupe 36” che fu incaricato di organizzare l’evento, l’opera doveva costituire un tour de force technique, quelque chose d’étonnant, de jamais vu. Un risultato che si ottenne pienamente, a giudicare dall’impatto visivo che ebbe la “Freccia” nel panorama della grande kermesse internazionale.

Un acquerello del padiglione dell’architetto Jean Van Doosselaere

Il progetto fu concepito come endiadi di due parti congiunte: da una parte un lunghissimo braccio proteso arditamente nell’aria, il quale altro non era che l’elemento portante a cui erano fissati i tiranti che reggevano una passerella, sospesa a 5 metri circa dal suolo, che avrebbe consentito ai visitatori di ammirare dall’alto una grande mappa realistica del Belgio, su cui campeggiavano le opere compiute dal Genio Civile (ponti, strade, porti, canali, etc.); dall’altra, un’ampia sala espositiva anch’essa a sbalzo, posta dalla parte opposta del braccio puntato verso il cielo, la quale concorreva al mantenimento dell’equilibrio statico, creando altresì uno studiato episodio di articolazione formale.

La sala aveva una pianta triangolare di circa 30 metri di lato e le sue pareti erano chiuse da vetrate. La copertura era costituita da una sottile volta cementizia a vela che la rendeva mossa e levitante ma comunque di aspetto omogeneo rispetto all’insieme architettonico-scultoreo di cui era parte integrante. Oltre che un’opera di strabiliante impatto formale, il padiglione era quindi una costruzione funzionante, che non trascurava le esigenze fruitive.

Sezione longitudinale e trasversale del padiglione

Il braccio che reggeva la passerella aveva uno sbalzo lunghissimo di circa 80 metri, che appariva ancor più sbalorditivo in quanto del tutto privo di sostegni visibili. La sua prodigiosità formale era davvero mirabile, in quanto il braccio si assottigliava progressivamente fino a concludersi con una punta affilatissima che a vederla destava meraviglia per come facesse a non spezzarsi e cadere nel vuoto. La sezione trasversale di forma ad A rovesciata, con le facce oblique esterne che erano spesse solo pochi centimetri, concorreva ad accentuare l’ingegnosità tecnica dell’opera che, in fase esecutiva, richiese lo studio accuratissimo dei ponteggi (essi stessi opere d’arte), dei telai metallici di rinforzo della armature, delle casseforme per i getti dei vari calcestruzzi, etc., mediante numerosi modelli che aiutarono a ponderare le scelte.

Si veda anche
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La “Freccia” era fissata al suolo con un solo possente piede, mentre altri due piedi in contrasto fissavano al suolo la sala espositiva che bilanciava l’equilibrio. Il congegno statico-costruttivo dell’intero padiglione era quindi semplice e al contempo geniale, basandosi comunque su una fondazione dotata di numerosi pali Franki infissi nel terreno, noti ancora oggi per l’altissima capacità portante e la resistenza alle forze di ribaltamento. La soluzione rendeva enfaticamente vincente la sfida dell’ingegneria e dell’architettura alle leggi della statica e della gravità dei corpi, portando ai limiti estremi le proprietà di resistenza dei materiali e di applicazione delle tecniche costruttive.

Il padiglione nel contesto del settore espositivo riservato al Belgio, prima dell’inaugurazione

Trionfo dell’architettura scultorea

Per quanto si possa ritenere di conoscere la storia dell’architettura ‘scultorea’ non mi vengono in mente altre opere coeve, aventi aspetti formali e tecnici più arditi e sbalorditivi. Eppure, il modernismo di metà secolo, staccandosi talvolta dalle scontate stereometrie geometriche, identificò proprio nella scultoreità o plasticità delle forme libere uno dei possibili campi di rinnovamento della comunicazione architettonica.

La “Freccia” fu un’opera tra le più acclamate dell’Expo di Bruxelles del 1958, che impressionò i visitatori con altri eventi che assunsero valore emblematico, tra cui la costruzione dell’Atomium, una architecture parlante che rendeva omaggio ai coevi studi che stavano vieppiù disvelando l’essenza della materia. La manifestazione della fiducia nel progresso umano e nell’avvenire, simbolizzata dal dinamismo virile della “Freccia”, fu di fatto primaria per l’esaltazione dell’ingegneria civile quale disciplina trainante per l’economia e la società.

Il padiglione durante i giorni di apertura dell’Esposizione

Ciononostante, come talvolta accade nella storia delle azioni compiute dagli uomini, l’eccezionale valore iconico del padiglione, per la storia sia dell’Expo sia del Belgio, non bastò a preservare l’opera dalla sventura. La “Freccia” venne infatti demolita nel 1970, scomparendo per sempre dal Plateau de l’Heysel, come si chiamava il sito dove si tenne l’Esposizione, e dal patrimonio culturale dell’umanità. Pur sapendo che le architetture effimere sono in quanto tali condannate alla scomparsa, come accadde peraltro al Padiglione Philips progettato da Le Corbusier, la vicenda costituì un vero scempio, un’operazione insipiente compiuta da chi mostrò di ignorare l’enorme valore costruttivo ed estetico che l’opera possedeva.

Per questo, ho deciso di inaugurare la sezione che in questo sito web sarà dedicata ai patrimoni perduti, col Padiglione del Genio Civile dell’Expo di Bruxelles del 1958. Un’opera che invero ha sempre attratto la mia curiosità di architetto e di persona comunque sensibile alla fenomenalità dell’architettura in quanto espressione della creatività umana.

Il padiglione nel contesto del settore espositivo riservato al Belgio, durante i giorni di apertura della kermesse. Si osservi la forma affilata della lunghissima “Freccia” aggetto, e la sala espositiva soprastante l’area del piede di appoggio al suolo

L’esperienza qui rievocata dimostra che la storia delle vicende architettoniche, talvolta, può essere fatta considerando non solo ciò che si costruisce ma anche ciò che si demolisce. Tener conto di tali evenienze può quindi rivelarsi un’attività sconsolante ma non per questo trascurabile.  Per fortuna esistono documenti iconografici (fotografie, filmati, etc.) che permettono di continuare ad ammirare le fattezze tecnico-estetiche della “Freccia”. Nel sito web www.sonuma.be, dedicato agli archivi audiovisivi, esiste anche un video che mostra i momenti della distruzione attuata con carica esplosiva. Si tratta di un video che addolora, ma che è un prezioso documento storico su ciò che avvenne senza tanti riguardi e senza tanti clamori mediatici, all’insegna della ‘banalità del male’ di cui spesso siamo vittime.

EMas (Emanuele Masiello) – 30 dicembre 2020

 


 

Fonti documentarie:

La Fleche du Genie Civile, au Heysel, extrait des Annales des Travaux Publics  de Belgique, n. 1, Février 1958

Le Journal de l’Expo, 120e jour 

Guide Officiel de l’Expo, p. 117 

Un manifesto dell’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958 dell’artista Léo Marfurt