SCOMPARSO UN PROTAGONISTA EMINENTE DELLA CULTURA ARCHITETTONICA CONTEMPORANEA
Tra le vittime illustri del letale covid-19, che ha inferto duri colpi alle generazioni più anziane, vi è stato anche Vittorio Gregotti, morto il 15 marzo 2020 all’età di 92 anni. Architetto, ma anche urbanista, docente, saggista, etc., Gregotti è stato un protagonista della cultura costruttiva internazionale, soprattutto nell’ultimo trentennio del XX secolo, quando ha costituito un solido riferimento per i credenti nel valore ‘imperituro’ del modernismo, esposto alle caustiche critiche del post-modernismo.
Egli sarà ricordato nello specifico per aver propugnato la declinazione della modernità alla scala urbana e territoriale, esponendo tali idee nel suo primo importante libro, Il territorio dell’architettura, che nel 1966 apportò un rilevante contributo alla riflessione teorica sulla materia, insieme al coevo influentissimo saggio di Aldo Rossi, L’architettura della città, anch’esso germinato nel fecondo milieu milanese.
Di pochi anni successivi sono i primi impegnativi progetti di grandi dimensioni, insieme ad altri autori, quali lo ZEN (Zona Espansione Nord) a Palermo (1969-73) e l’UNICAL (Università della Calabria) a Rende, vicino Cosenza (1973-79). Il più contestato è senza dubbio lo ZEN, un enorme insediamento popolare per 20.000 abitanti, pensato come un pezzo di città dotato di servizi e spazi per relazioni sociali, avente un impianto progettuale chiaro e razionale.
A chi gli chiedeva provocatoriamente se gli sarebbe piaciuto abitare nel quartiere ZEN, in un’intervista televisiva che mi lasciò alquanto di stucco, Gregotti ebbe a dichiarare (cito a memoria): “io faccio l’architetto non il proletario”. Impiegai del tempo a comprendere il senso al contempo cinico e serafico di quella risposta, che discolpava l’architettura dalle responsabilità che spettano alla politica e agli amministratori. Se lo ZEN era stato ridotto a luogo di sconcio degrado urbano e sociale, la colpa era quindi del Comune di Palermo e non del progettista, il quale aveva concepito un quartiere che esprimeva comunque un sostrato teorico e professionale di qualità ben superiore a quello riscontrabile nella caotica edilizia privata circostante.
Considerazioni analoghe sarebbero valse per la vicenda delle coeve Vele di Scampìa, progettate dall’architetto Franz Di Salvo che di recente sono state purtroppo distrutte dal Comune di Napoli in quanto ritenute focolai di malvivenza, pur costituendo un mirabile esempio di ‘urbatettura’ del loro tempo e pur essendo state immortalate quali icastiche locations in vari films e serie televisive sulla camorra, la semplice qual cosa avrebbe dovuto scongiurarne la demolizione.
L’emersione a livello internazionale della notorietà di Gregotti ha tuttavia goduto in larga parte della sua intensa attività nel campo dell’editoria architettonica. Egli fu redattore capo (1955-63) della prestigiosa ‘Casabella-Continuità’, rivista diretta da Ernesto Nathan Rogers del famoso studio BBPR, assurgendo subito dopo al ruolo di direttore (1963-65) di ‘Edilizia Moderna’, altra rivista importante del ricco panorama editoriale italiano del tempo. Le esperienze che favorirono la graduale ascesa di Gregotti quale influente maestro della cultura architettonica in ambito sovranazionale restano comunque la direzione prima di ‘Rassegna’ (1979-98) e poi di ‘Casabella’ (1982-96), quest’ultima tornata ad acquisire il nome che ne aveva segnato la storia quale fonte di culto per l’avanguardia modernista in occidente.
Si direbbe che Gregotti sia stato in grado di tesaurizzare appieno, per il successo professionale e la carriera didattica, il grande potere che spesso proviene dall’avere ruoli importanti nel mondo editoriale. Quando frequentavo la Facoltà di Architettura di Firenze, negli anni ‘80, ero solito visionare sia ‘Rassegna’, sia ‘Casabella’, forse perché sarei stato annoverabile anch’io tra i modernisti a oltranza. Ciò che appezzavo delle due riviste dirette da Gregotti era comunque la trattazione di temi insoliti, che suscitavano dibattiti sull’impatto antropico dell’architettura e sul senso di una disciplina da ripensare continuamente. Apprezzavo inoltre la valorizzazione di autori stranieri, quale il portoghese Alvaro Siza che divenne un venerato maestro dell’architettura contemporanea.
Le opere che progetta negli stessi anni attestano peraltro la graduale conquista da parte di Gregotti di un linguaggio autonomo e di un’estetica distinguibile. Il famoso Centro Culturale di Belém in Lisbona (1988-93) è un’architettura urbana imponente, che tende a competere visivamente persino col vicino monumento manuelino del Monastero dos Jeronimos. Il complesso residenziale (1984-86) realizzato a Berlino nell’ambito dell’IBA (Internationale Bauaustellung), si distingue per i grandi portali urbani che connettono gli spazi stradali alle più intime corti interne. Da padano doc quale è stato, Gregotti ha dimostrato che il legame dell’Italia con l’Europa potesse esprimersi in architettura coi fatti concreti più che con le velleità. Nel grande progetto urbano di recupero dell’area Pirelli a Milano Bicocca (dal 1985), si respira più che altrove l’atmosfera delle metropoli europee, riscontrabile nel calibrato dimensionamento degli edifici in rapporto ai tanti fattori che definiscono la qualità dei luoghi pubblici (ampiezza dei marciapiedi, disposizione dei parcheggi, complementi vegetali, etc.).
Un altro settore nel quale Gregotti si è distinto come architetto è stato quello degli impianti sportivi. Dallo Stadio Olimpico di Barcellona (1986-90), rinnovato integralmente salvo che nelle facciate esterne di fine anni ‘20 che sono state restaurate, passando per il nuovo Stadio di Nîmes (1987-89), l’abilità di Gregotti si è pienamente espressa nella ristrutturazione dello Stadio Ferraris di Genova, in occasione di mondiali di calcio di Italia 1990.
La scelta di non costruire un nuovo impianto fuori città, come avvenuto a Bari, comportò peraltro l’insolita possibilità, rimasta tuttavia minoritaria, di considerare gli stadi calcistici quali enormi anfiteatri aperti, situati entro aree urbane agevolmente raggiungibili coi mezzi pubblici.
Per la conformazione dell’opera Gregotti si ispirò ai primi impianti di calcio inglesi i quali, avendo le gradinate molto vicine al campo da gioco e disposte in parallelo ai quattro lati del rettangolo, compensavano meglio l’esigua disponibilità di spazi lungo il torrente Bisagno. Una soluzione molto indicativa dell’approccio ingegnoso e non convenzionale al progetto, che lo accompagnò nel dipanarsi delle sue ambizioni di maître à penser e di divulgatore dell’architettura, di cui sono prova anche le collaborazioni al ‘Corriere della Sera’ e alla ‘Repubblica’, oltre alla titolarità (dal 1984 al 1992) di una rubrica sul settimanale ‘Panorama’ che si aggiunse a quella seguitissima di Bruno Zevi su ‘L’Espresso’. La qual cosa rese Gregotti ai miei occhi, da un certo periodo in poi, l’Umberto Eco dell’architettura.
Siamo quindi molto dispiaciuti per la perdita di Vittorio Gregotti a causa del coronavirus, ma siamo al tempo stesso felici che sia vissuto un uomo che ha dedicato alla cultura architettonica, in molteplici modi fattivi, l’intera sua vita.
EMas (Emanuele Masiello) – 20 marzo 2020
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